Parte I
– Maledetta pioggia.
– Chiudi, hai intenzione di finire arrosto?
– La ricordi?
– Oddiotipregono…
– La ricordi o no?
– Ogni volta la stessa storia.
– Sì, ogni volta. Hai altro da fare per caso? Devi uscire? Rispondi o ti faccio prendere una boccata d’aria prima del tempo – tirandolo con forza per la giacca verso la finestra spalancata.
– Chiudila, cretino! Piantala, Sid! Per l’amor del cielo!
– Perlamordelcielo, eh? Questo cielo ha smesso di amarci quando sulla tua faccia da idiota non erano ancora spuntati quei ridicoli peli. E ora guardati – mostrandogli il riflesso sdoppiato sul vetro – sono bianchi, sei invecchiato.
– Almeno sono originali. E miei.
– Non è affatto poco. Dimmi cosa ricordi.
– Perché? Te l’ho raccontato mille volte.
– Fallo una volta ancora. So che ti piace.
– No, è una tortura, vorrei dimenticare. E poi la ricordi bene anche tu.
– Che c’entra? Ognuno ricorda in modo diverso. Tu, ad esempio, ricordi a colori. E poi mi piace ascoltare, mi sembra di essere ancora vivo.
– Non vorrei sembrarti pignolo, ma tu sei vivo.
– Questa è solo la tua personalissima opinione.
– Se c’è una cosa che non tollero, è darti ragione: dall’odore che emani potresti essere morto da giorni…- cogliendo l’attimo per chiudere con sollievo la grande vetrata – …la terra, ricordo la terra, era il primo sintomo. Entrava dritta nello spazio tra bocca e cervello e ci restava, come un cilindro profumato infilato nel setto nasale. Uno degli odori più belli che abbia mai sentito. Se avessi incontrato una donna con un odore simile, a quest’ora non sarei qui con te.
– Ehi, stai insinuando che puzzo? – annusando con il naso aquilino oltre il colletto liso della maglietta.
– Non insinuo proprio niente. È così!
– Vieni, ti dimostro il contrario – profittando della superiorità fisica per schiacciargli con estrema facilità la faccia contro l’ascella.
– Dio, quanto puzzi…
– Non vorrai farmi credere che conosci l’odore di Dio?
– Mpff… – sbuffando e roteando gli occhi e la testa in un unico gesto nauseato.
– E poi? Continua.
– Non ti meriti neanche una sillaba… Poi entrava il vento, da Sud, tiepido e umido, carico di foglie e di grosse formiche con le ali.
– Di che colore era?
– Cosa?
– Il vento.
– Il vento non ha colore, né forma, lo sai
– Eddai, fai uno sforzo…
– E va bene. Era rosso, rosso di sabbia del deserto, rosso di henne, rosso di carne piena di mosche appesa per strada. La forma non la ricordo nitida, ma aveva il pelo corto e morbido di animale veloce ed elegante.
– Come lo chiamavi? Il vento, intendo.
– Quanto rompi. Lo chiamavo Grìs.
– E dopo il vento?
– Ricordo il suono: maestosi cavalli liberi e lontani, dritti verso me al galoppo, montati da guerrieri senza paura, anticipatori di battaglia, suonatori di tamburi oltre le montagne. Ma prima ancora del suono, arrivava la luce. Sinapsi a unire suolo e cielo, dando vita alla morte, uccidendo la vita.
– Ne ha ucciso più la spada, tranquillo.
– Per andare al riparo facevo l’unica cosa da non fare, sai? Correvo. Al riparo da cosa, poi? Se ci penso adesso.
– Già.
– Una volta al sicuro, volgevo i palmi delle mani verso l’alto, come in preghiera, e aspettavo. La prima goccia. Fredda, a schiantarsi muta, ad aprire il suono della tempesta. Solo allora facevo un passo in avanti, aprivo la bocca, con la lingua protesa in avanti, per bere.
– Dio, quanto mi manca.
– Non vorrai farmi credere che ti manca Dio? – nascondendo un sorriso di piccola vendetta.
– Sono io che non manco a lui – bofonchiando con la sigaretta stretta tra le labbra.
– Dovresti smettere.
– Lo dici solo perché è l’ultima, e piove – accendendola sulla fiamma della candela.
– Sì, volevo fumarmela io. Chissà quando smetterà.
Un fulmine silenzioso attraversa il cielo, seguito da un rumore frizzante di scarica elettrica.
– Solo le formiche – osservandone una camminare incolume sul davanzale – sono riuscite a resistere a questa pioggia.
– Piscio. Chiamala con il suo nome.
– Fosse solo piscio…
– Ogni volta che c’è un guasto nei Substrati superiori, qui si rischia di restare fulminati.
– Preferiresti salire?
– Mi capita spesso di pensarci, ricordo appena l’ultimo albero che ho visto.
– Lo so, ma è un rischio troppo grande. L’ultimo di cui si ha notizia pare che sia finito con le braccia al posto delle gambe e gli occhi nei gomiti.
– Beh, almeno può guardarsi le spalle.
– Non ne vale la pena. Macchina infernale.
– Se lo fosse andrebbe anche verso il basso, invece sale e basta. E comunque credo non valga la pena neanche vivere così, come noi.
[continua]