“[…]
Rientrò in paese, per la festa che più la scuoteva.
Era con sua madre, alla ricerca di un qualsiasi spiffero di comunicazione senza scontri. Desiderava solo una cosa, ormai: poterle permettere una vecchiaia senza lavoro e senza pensieri. Temeva di fallire in questo, ma era un pensiero troppo doloroso. Così si mise a fare due conti.
I fuochi si accendono da tempi primordiali, da generazioni non numerabili e le grandi radici secolari illuminano i rioni, ricordando alle menti più rispettose che il fuoco ha generato il mondo.
Contò i focolari, una quarantina, per essere avara.
Ipotizzò cinque radici per ogni fuoco, sempre sulla linea del risparmio.
Datò un secolo di fuochi.
Quaranta per cinque, moltiplicato per cento.
Duecento radici all’anno, per un secolo: ventimila radici.
Da dove diavolo le tiravano fuori tutte queste radici?
Gli alberi, bene o male, son quelli, vivi e morti e il cambio generazionale delle piante ha ritmi troppo lunghi rispetto a quello umano.
I numeri che ipotizzò erano bassi e questo non faceva che renderla ancora più incredula.
Prima o poi, queste grandissime radici sarebbero dovute finire.
Pose il problema alla madre, che non colse l’attimo di dialogo, così si rispose autonomamente, convincendosi che il diavolo non aveva meriti, ma che si trattava sicuramente di un miracolo del Santo in questione, che mai lascerebbe i suoi amati Uomini al freddo.
Soddisfatta dell’ennesima soluzione irrazionale che trovò al problema, sentì i campanacci avvicinarsi e si innamorò ancora una volta dei profili duri delle maschere.”
[…]
Sapeva benissimo che non lo avrebbe riconosciuto, dietro la maschera e non per mancanza di indizi, ma semplicemente perché non c’era.
Eppure, quando le prime pelli inasprirono la piazza, coperte dal suono cupo, a tratti argenteo, chiuse gli occhi ed espresse un desiderio.
Impossibile. Era un desiderio impossibile. Doveva sforzarsi per non pensarci.
In mezzo alla piazza si sentiva nuda. Lei non aveva la maschera, non la aveva mai indossata e la tensione le si poteva leggere in faccia da chiunque, ma poteva stare tranquilla perché nessuno la guardava.
Si concentrò sulle corde che danzavano sulla folla, calamitate dalle giovani più belle.
Non era lì la sua pace e finito il suono, non volle restare nel momento in cui tutti si smascheravano per salutare un amico, per scattare una foto, per bere un vino nero o per asciugarsi il sudore dalla fronte. Fece strada tra la folla a sua madre, ma spinta dal flusso finì proprio nel gruppo delle maschere. Evitò di fermarsi con quelli che riconobbe. Doveva andar via. Passò tra loro a passo svelto, ma una forte presa al bicipite la strattonò, fermandola.
“Veni a nohe, tue.”*
Esitò.
Si voltò.
Era una maschera alta quanto lei. Tirò un sospiro di sollievo, ma provò delusione, senza motivo.
Salutò sorridente l’amico che l’aveva fermata e si incamminò, cercando con lo sguardo la madre che aveva perso in pochi attimi.
Avevano trovato un parcheggio di fronte ad una casa giallo limone, perché nessuno possiede l’umorismo che ha il destino.
Salutò la vernice delle scale e pensò ad una canzone adatta a quel momento.
Reckoner. Radiohead.”
*”Vieni qui, tu.””
[cit. Storie di notti col cane – E. A. ]